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lavoratore arrabbiato fa il gesto di andare via
primo-piano 1 Apr 2020

Licenziamento disciplinare: cosa occorre sapere?

Il licenziamento disciplinare rappresenta il mezzo ultimo al quale il datore di lavoro può incorrere per punire il lavoratore che non rispetta le regole disciplinari derivanti dai contratti collettivi, dalle norme contenute nel codice dell’azienda stessa oppure ancora stabilite dalle leggi. Ecco alcune questioni importanti da affrontare per comprendere a fondo il licenziamento disciplinare.

 

Definizione

Il licenziamento è quindi un atto unilaterale del datore di lavoro, che non necessita quindi l’accordo del lavoratore, attraverso il quale si pone fine al rapporto lavorativo. Quindi, il licenziamento disciplinare scatta ogni qualvolta il lavoratore risulta inadempiente, non rispettando quindi le norme disciplinari che stanno alla base del contratto di lavoro e che spesso possono derivare da fonti diverse dal contratto stesso, come già accennato (sono regole derivanti dalla legge stessa o da regole contenute nei contratti collettivi).

Requisito della giusta causa e giustificato motivo soggettivo

Affinché il datore di lavoro possa incorrere al licenziamento disciplinare devono sussistere 2 elementi essenziali: la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo.

 

La giusta causa si ha quando il lavoratore commette un’azione che comprometta in modo definito il rapporto fiduciario tra il lavoratore e il suo datore. Sono comportamenti gravi, che mettono fine al rapporto lavorativo in maniera immediata , senza dover dare un preavviso. Si può riportare l’esempio di un lavoratore che commetta un furto ai danni del datore di lavoro.

 

Alcuni dei casi in cui è possibile rincorrere a questa punizione sono contenuti all’interno dei contratti collettivi, ma l’elenco presentato è incompleto e rappresenta i casi più ricorrenti, infatti il datore di lavoro può procedere con il licenziamento in ogni situazione in cui possa dimostrare la gravità estrema del caso.

 

Sussiste invece il giustificato motivo soggettivo ogniqualvolta il lavoratore commetta delle trasgressioni di entità meno grave, ma che possono comunque comportare il licenziamento.

 

In questo caso però a differenza di quanto si verifica per la giusta causa, il datore di lavoro è tenuto a dare un preavviso, quindi si deve attendere il trascorrere di un numero di giorni tra il momento del licenziamento e la cessazione effettiva dell’attività lavorativa.

 

Il numero minimo dei giorni è sancito all’interno dei contratti collettivi, così come anche i comportamenti che fanno scattare questo meccanismo. Anche in questo caso, vale quanto detto sopra, quindi non tutti i casi sono contenuti nei contratti collettivi, infatti la valutazione avviene caso per caso. Un esempio comune può essere quello del lavoratore che si assenta spesso senza giustificati motivi, o per mancato rispetto delle direttive.

Oneri formali

Per quanto riguarda la forma del licenziamento, questo deve sempre essere presentato in forma scritta, pena la nullità dell’atto. Quindi, il licenziamento orale non ha alcun effetto e il lavoratore risulta ancora in attività. L’iter del licenziamento dunque prevede che il datore di lavoro debba consegnare al proprio dipendente un documento attraverso il quale vengono esposte in modo chiaro le motivazioni della decisione.

 

L’esposizione delle ragioni è fondamentale affinché il lavoratore possa comprenderle e qualora voglia, possa controbattere negando l’esistenza dei fatti. Nel caso in cui, il lavoratore riporti delle valide giustificazioni e possa smentire quindi la commissione del fatto illecito, il datore di lavoro è tenuto a valutare nuovamente la questione e decidere se proseguire o meno con il licenziamento.

 

Impugnazione del licenziamento disciplinare

Il licenziamento può essere contestato dal lavoratore nel caso in cui questi ritenga che non sussistano i requisiti della giusta causa o del giustificato motivo. La regolamentazione in materia di licenziamento illegittimo è dettata dalla legge che stabilisce i modi attraverso i quali il lavoratore può agire nei confronti del datore di lavoro. L’atto può essere impugnato entro 60 gg. da quando il lavoratore riceve la comunicazione del licenziamento solo se all’interno di questa sono esposte le ragioni, altrimenti il temine decorre dal momento in cui le ragioni vengono comunicate.

 

La contestazione deve essere presentata in forma scritta. Il format è scaricabile online pronto per la compilazione e può essere mandato anche tramite semplice raccomandata. Attraverso questa comunicazione l’imprenditore è messo a conoscenza del fatto che il lavoratore è intento a proseguire con l’impugnazione. Il step successivo prevede che nei prossimi 180 gg il lavoratore debba presentare il ricorso presso la cancelleria del tribunale ordinario, nella sezione sezione dedicata al lavoro, altrimenti l’atto risulta invalido. Alternativamente, il lavoratore può anche tentare una riconciliazione con il datore di lavoro presso l’ispettorato territoriale di lavoro (ITL)presentando le sue intenzioni all’azienda.

 

Nel caso in cui il datore non si presenti o non accetti la richiesta di conciliazione , il lavoratore deve proseguire, entro 60 gg., con la deposizione dell’impugnazione presso la cancelleria del tribunale, come già sopra detto. Se il datore di lavoro invece accetta, ma l’esito è negativo, quindi non vi si raggiunge un accordo, comincerà a decorrere nuovamente il termine di 180 gg. entro i quali il lavoratore dovrà rivolgersi al giudice per impugnare l’atto di licenziamento considerato illegittimo.

 

Fattispecie di licenziamento vietate dalla legge

Vi sono dei casi in cui invece il licenziamento, a prescindere dalle motivazioni, non è ammesso. E’ la legge ad indicare questi casi.

 

Il primo caso in cui il licenziamento è vietato dalla legge è quello legato a motivi discriminatori, che quindi attingono alla sfera politica, razziale o religiosa del lavoratore. Nessuno può essere licenziato perché appartiene ad un determinato credo religioso o per essere iscritto ad un determinato partito politico, così come non si può licenziare nessuno per il colore della pelle o per la nazione di appartenenza.

 

Risulta inoltre illegittimo il licenziamento delle lavoratrici in stato di gravidanza o di tutti i lavoratori per motivi riconducibili al matrimonio.

 

Nel caso in cui si verifichino queste ipotesi il licenziamento che viene impugnato dal lavoratore è dichiarato nullo, quindi il giudice obbliga il datore di lavoro a riassumere il lavoratore ingiustamente licenziato.

 

Con il Jobs Act del 2015 è stata introdotta un’ulteriore disciplina che fa capo ai lavoratori qualificati come impiegati, quadri e operai , che siano stati assunti dal 7 marzo 2015 con contratti subordinati e indeterminati, per i quali è previsto che di fronte al verificarsi delle cause sopra elencate, con particolare attenzione per le cause discriminatorie, il giudice dovrà adottare un iter particolare, cioè:

  • ordinare la ricollocazione del lavoratore che dovrà riprendere l’attività lavorativa entro 30 giorni dall’invito; in seguito il datore di lavoro sarà condannato a pagare un’indennità al lavoratore, calcolata sulla base dell’ultima retribuzione presa in considerazione per il calcolo della liquidazione (T.F.R), inoltre dovrà versare i contributi previdenziali.

Nel caso in cui il lavoratore rifiuti la reintegrazione , questi può richiedere il versamento di una indennità pari a 15 mensilità.

 

 

Le sanzioni previste per il licenziamento disciplinare illegittimo

Come accennato in principio, nel caso in cui non sussistano i requisiti della giusta causa o del giustificato motivo, il licenziamento risulta illegittimo per cui il datore di lavoro incorre in delle sanzioni stabilite dalla legge.

 

Attraverso una serie di interventi legislativi il quadro normativo previsto per le sanzioni contro il licenziamento illegittimo è stato profondamente modificato tra il 2012 e il 2015.

 

Le riforme alle quali si fa riferimento sono la legge n.92 del 28 giugno 2012 (Riforma Fornero) e il D.Lgs n. 23 del 2015 (Jobs Act).

 

Il quadro che risulta oggi è il seguente:

a) generalmente le sanzioni previste restano quelle regolate dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori in seguito alla modifica della Riforma Fornero stabilendo che, per le imprese collocate nello stesso Comune e che hanno più di 15 dipendenti ( 5 se si tratta del settore agricolo) o che ancora hanno più di 60 dipendenti, il giudice può ordinare al datore di lavoro di pagare al proprio dipendente illegittimamente licenziato un’indennità che va da un minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24 mensilità. Al verificarsi di questa ipotesi il rapporto lavorativo si interrompe a prescindere dalla volontà del lavoratore.

 

Al lavoratore  è riconosciuta la possibilità di essere reintegrato se è stato licenziato per un fatto che non sussiste, oppure ancora se
il fatto sussiste ma nei contratti collettivi è prevista una sanzione diversa dal licenziamento.
Al verificarsi di queste ipotesi il giudice annullerà il licenziamento e ordinerà al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore. In seguito, il datore sarà tenuto a pagare un’indennità (mai superiore a 12 mensilità).

 

Per le imprese che hanno un numero di dipendenti inferiore a quelli sopra descritti il giudice non potrà richiedere la reintegrazione del dipendente. L’unico obbligo che può essere imposto al datore di lavoro è quello di pagare al lavoratore un’indennità calcolata sulla base della sua anzianità nell’impresa.

 

 

b) nel caso in cui il licenziamento illegittimo sia stato mosso nei confronti di lavoratori con qualifica di quadro, operaio o impiegato che presentano contratti  a tempo indeterminato, stipulati dopo il 7 marzo 2015, si applicano le regole contenute nel Jobs Act.

 

La disciplina del Jobs Act prevede quindi che, in caso di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro sarà tenuto soltanto a pagare un’indennità pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il TFR.

 

Il giudice può in questo caso obbligare la reintegrazione del lavoratore solo nel caso in cui, durante il processo, viene dimostrata l’inesistenza del fatto per il quale il lavoratore sia stato licenziato.

 

Così, oltre alla reintegrazione, il datore di lavoro sarà tenuto a risarcire il lavoratore con indennità calcolata sulla base dell’ultima retribuzione per un periodo che va dal giorno del licenziamento fino al giorno in cui avverrà la reintegrazione. L’indennità non potrà mai superare le 12 mensilità calcolate relativamente alla retribuzione di riferimento per il calcolo della liquidazione.

 

Quanto detto vale solo per le imprese che abbiano più di 15 dipendenti (5 per azienda agricola) in ciascuna sede, oppure che abbia più di 60 dipendenti se la sede è unica.

 

Nel caso in cui l’impresa presenti un numero di lavoratori inferiore, il giudice non potrà in alcun caso imporre la reintegrazione, inoltre la somma risarcitoria sarà dimezzata.

 

 

Conciliazione licenziamento illegittimo

Con il già nominato Jobs Act che, come abbiamo visto si applica ad una determinata categoria di lavoratori, sono stati introdotti dei strumenti ideati per evitare l’impugnazione del licenziamento.

 

Il datore di lavoro, in effetti, per effetto di questo provvedimento può revocare il licenziamento entro 15 gg. dalla data di impugnazione comunicata dal lavoratore. Al verificarsi della revoca, il rapporto lavorativo viene ripristinato, e al lavoratore spetta la retribuzione.

 

Un’ulteriore ipotesi prevede invece che il datore possa offrire al lavoratore, entro il termine di 60 gg previsto per l’impugnazione, una somma calcolata nella modalità più volte indicata, cioè sulla base dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, applicato per ogni anno di servizio. La somma inoltre non potrà essere inferiore a 2 mensilità e superiore alle 18 .L’accettazione da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto di lavoro.

 

Jobs Act e l’irretroattività

L’irretroattività del D.Lgs. 23/2015 è solo parziale e ciò significa che in determinate condizioni le norme che esso prevede possono applicarsi anche ai contratti di lavoro stipulati prima della sua entrata in vigore.

 

Come già riportato, le norme contenute all’interno del Jobs Act si applicano a tutti quei lavoratori che siano stati assunti dopo l’entrata in vigore del decreto, che risulta quindi irretroattivo.

 

Tuttavia, possono verificarsi dei casi in cui il decreto possa applicarsi anche a quei contratti di lavoro nati prima della sua entrata in vigore. Anzi, potremmo ritenere che questi casi sono più frequenti di quanto si possa pensare. L’elemento determinante è ancora una volta il numero dei dipendenti dell’azienda in questione.

 

Infatti se l’azienda presenta , in seguito ad assunzioni fatte dopo l’entrata in vigore del decreto, un numero superiore ai 15 dipendenti in ogni filiale,5 per le aziende agricole, oppure se ha un numero superiore ai 60 dipendenti, per i licenziamenti dei lavoratori  (anche di quelli assunti prima del decreto)viene applicata la disciplina contenuta nel Jobs Act.

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